La vera rivoluzione fu capire che il teatro era solo una tappa, la vera destinazione era più avanti, al capolinea dell’ultimo filobus nella notte.

di Enrico Pau

Nel 1968 avevo 12 anni, sono arrivato troppo presto all’appuntamento, ero ancora un bambino timido, ma avevo le idee chiare su quella che sarebbe stata la mia rivoluzione del futuro: l’amore per l’arte e per la bellezza. I miei genitori, per motivi diversi, erano persone speciali, ma questa cosa che mi piaceva disegnare, che leggevo un sacco di libri, che alla televisione di allora restavo incantato davanti al cinema in bianco e nero o a Ungaretti che presentava l’Odissea, gli sembrava strana. Fecero finta di non capire e invece che all’Artistico, mi spedirono alla scuola tecnica, ma questa è un’altra storia. Tanto il destino lavora sotterraneo, carsico, profondo, prepara certi appuntamenti che non puoi neanche immaginare, il primo con una Professoressa di italiano che, malgrado le latitudini elettromagnetiche della scuola, mi fece innamorare di Dante, il secondo con il teatro, che malgrado il cinema, che oggi occupa la mia vita, è stata la mia vera rivoluzione e la mia vera passione e per questo molto devo al mio Professore di Storia del Teatro  di allora, Gigi Livio, che all’Università di Cagliari  mi aprì un mondo. C’è una fotografia che mi ritrae in un vecchio spettacolo “Di Svejk il buon soldato” di quella che un tempo era la Cooperativa Teatro di Sardegna, sono il clown di sinistra, l’altro è Cesare Saliu. È strano che io pensi al teatro come rivoluzione perché in realtà non amavo troppo recitare, e poi il teatro non ha mai veramente ricambiato il mio amore profondo per lui, semmai,  ora che posso volgermi indietro e guardare qualcosa che assomiglia a un passato, il teatro lo vedo come un’occasione persa, come una opportunità non sfruttata, ho fatto incontri importanti, ma non sono bastati, e oggi sono più i rimpianti per ciò che poteva essere, magari diventare regista,  che i ricordi belli e indelebili. Eppure non posso dimenticare quel senso di libertà che è legato agli anni di quella fotografia, ai viaggi bellissimi su pulmini sgangherati con i compagni di allora, al clown, alla sua arte, alla quale dedicai molto tempo, esercizi fisici e cura del corpo, studio della tromba, anche al conservatorio, dedizione assoluta e serietà, troppa persino. Ricordo, allora giocavo a rugby, che persi la finale a Roma per la promozione in serie B, perché non potevo mancare a una replica a Selargius alla quale non si presentò nessuno spettatore. Questo evento mi insegna che la mia rivoluzione teatrale è mancata, mi sono presentato all’appuntamento con tutto l’amore di cui potevo disporre, ma alla fine, dentro quella scena, mi sono sentito sempre troppo solo, fino all’incontro con Rino Sudano che mi ha fatto capire quanto il mio universo di attore fosse finito. La sua grandezza, anche filosofica e politica, mi ha messo di fronte ai miei limiti e con lui, in scena, ho recitato per l’ultima volta nel Pellicano di Strindberg, ogni sera prima di entrare in scena il mio cuore batteva fortissimo e il mio stomaco si chiudeva in una morsa dolorosa. Troppa responsabilità, avevo paura di macchiare la tela perfetta di un maestro con la mia finitezza di giovane attore, confuso allora fra la perfetta lezione sudaniana è una fascinazione per certe linee di un teatro contemporaneo sperimentale che allora amavo e frequentavo con assiduità, ma che confliggevano con quel teatro che si reggeva fondamentalmente sul “pensiero” e non su quelle immagini a volte belle, ma vuote, che inseguivo nelle mie performances. Cominciai a sentirmi in colpa per la vacuità in cui mi sentivo immerso e scappai dal teatro per prendere l’ultimo filobus della notte che passava e aveva scritto davanti “cinema” ma questa è veramente un’altra storia.

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